di Rita Salvatore
In questo post propongo alcune note di riflessione già illustrate nel corso del seminario tenutosi presso la Università di Teramo lo scorso 10 dicembre, in occasione dell’incontro dibattito con il team di Destinazione Umana
Decenni di turismo di massa ci hanno abituato a pensare alle vacanze, ai viaggi e al tempo libero in genere, come se questi si distribuissero lungo un asse spazio-temporale di tipo gerarchico organizzato sulla base di uno schema “centrale-periferico”. Andando un po’ per semplificazioni, possiamo dire che i flussi dei turisti, così come l’intera organizzazione dei servizi, risultavano concentrati su alcuni gangli centrali che fungevano da polo attrattore rispetto ad altri siti periferici, comunque ad essi collegati, nella stessa area. Si trattava delle cosiddette “località turistiche”. Fuori da queste zone di influenza e da questa concentrazione di sviluppo turistico, esistevano solo “luoghi qualsiasi”, “non-mete”. Una rappresentazione spaziale che ben si rifletteva anche nella organizzazione temporale, con la scelta del periodo delle ferie di agosto, come momento per riposarsi. Preferibilmente su una spiaggia, in riva al mare. Da qui il fenomeno della stagionalizzazione.
Perciò, anche in campo turistico, così come in quello dello sviluppo economico più in generale, nel nostro paese si sono andate prefigurando almeno “due Italie” (lasciando per ora da parte la Terza – cit. A. Bagnasco – e le altre venute a seguire): quella delle località turistiche più battute dalle masse, e quella dei luoghi “non-mete”, comunemente periferici e non particolarmente vocati per la fruizione turistica. Spesso aree del tutto sconosciute al grande pubblico dei viaggiatori. Spesso periferie, caratterizzate per lo più da disagio insediativo. Questa seconda Italia coincide di fatto con quella delle società rurali in declino, con le aree fragili. Si è trattato (e si tratta ancora) di un divario che già da diversi anni hanno messo ben in luce Legambiente e UnionCamere attraverso un
Osservatorio sul disagio insediativo.
Rispetto a questa rappresentazione, alcuni autori, già da qualche anno, stanno ipotizzando una inversione di tendenza. Brian Garrod, ad esempio, economista agrario gallese, parla di
“ruralità in transizione”, come di un periodo senza precedenti in cui la ruralità sarebbe al centro di una nuova centralità, grazie all’attenzione che le PAC hanno dedicato al tema della multifunzionalità, a partire dai primi anni del 2000. In questo scenario il turismo rurale sarebbe diventato un importante fattore chiave di cambiamento, una novità rispetto ai vecchi modelli di sviluppo rurale, basati unicamente sulla sola attività produttiva di beni agro-alimentari. In virtù della diversificazione, può essere quindi concepito come un importante elemento di integrazione tra le strutture economiche, sociali, culturali, naturali, umane in cui ha luogo. Ci sarebbe dunque da promuovere una complessa relazione di interdipendenza tra le risorse locali, gli attori, la valorizzazione dei patrimoni, il welfare e il mercato, a livello sia locale che globale. Anche per queste ragioni, il fenomeno connesso ai processi di riconversione delle campagne e di recupero delle economie rurali rappresenta oggi un ambito di osservazione privilegiato per l’analisi micro del cambiamento sociale e, congiuntamente, di quelle dinamiche che una società locale può mettere in atto al fine di superare lo status di perifericità.
Punto di partenza per un percorso di reale transizione è la constatazione basilare secondo cui NESSUN LUOGO PUÒ DIVENIRE UNA DESTINAZIONE TURISTICA SE LE COMUNITÀ CHE VI RISIEDONO NON OPTANO PER QUESTA SCELTA. Gli ingredienti del turismo rurale, infatti, non contemplano tanto una infrastrutturazione pesante e/o l’esistenza di servizi turistici standardizzati quanto piuttosto la rivitalizzazione di elementi tratti dalla vita quotidiana e la riscoperta dell’accoglienza come momento di incontro dotato di senso, tra chi ospita e chi viaggia. Non a caso, le aziende che operano in questo settore vengono spesso definite in letteratura come
“lifestyle oriented firms”.
Si fa quindi riferimento ad un ribaltamento di prospettiva, che prevede la centralizzazione di aspetti rimasti spesso marginali. Ricalcando anche le idee che Franco Arminio riunisce sotto la proposta di un
“nuovo umanesimo delle montagne” potremmo ipotizzare anche un “umanesimo nel turismo rurale”. In questa ottica, andare in viaggio verso una destinazione accogliente non significa visitare un luogo, una località turistica, ma significa partecipare ad una rivoluzione che rimette la terra al centro dell’economia e la passione al centro delle relazioni umane. Le località rurali non sono più intese come i luoghi del ripiegamento nostalgico, ma divengono spazio aperto a nuove immaginazioni e a contaminazioni, contesti in cui può aver luogo “la sagra del futuro”. Non sono neanche però i luoghi da riempire, dove portare la modernità delle città, in modo tale da farle diventare come il resto dell’Italia.
Se il modello è portare lo sviluppo che abbiamo conosciuto fin qui, tanto vale lasciar che questi luoghi restino abbandonati […] significherebbe omologare le montagne all’Italia delle pianure (Arminio)
Bisogna invece incentivare la sperimentazione di modelli (o, se vogliamo non-modelli) diversi, come per esempio quelli delle
cooperative di comunità, legati ad un’economia dolce e comunitaria che contempli nuove forme di artigianato e di agricoltura multifunzionale, salvaguardia dell’ambiente, conseguimento della filiera chiusa e, congiuntamente, accoglienza.
Intenti di non facile realizzazione, soprattutto se pensati come disgiunti dalle politiche di welfare. Molte di queste potenziali destinazioni infatti sono costituite da aree fragili, che hanno superato le soglie minime di non ritorno (cit. Giovanni Cialone). Evidenziano cioè limiti reali nelle possibilità di azione e di intervento, essendo vittime di gravi deficit socio-economici che vanno dalla polverizzazione dei servizi allo spopolamento, dalla senilizzazione della popolazione alla denatalità. Mancano di fatto le materie prime per poter avviare un processo di sviluppo turistico (qualità della vita, coesione sociale, capitale umano, saperi dei territori). Come suggerito dai rapporti dell’Osservatorio su citato, servirebbe uno SHOCK CREATIVO, politiche più mirate, investimenti in INGEGNO e CREATIVITÀ. Non più finanziamenti a pioggia per una valorizzazione tout court. E soprattutto servirebbero NUOVI RESIDENTI, a scardinare il mito della comunità locale e dell’endogenesi. Andrebbero scelti in modo oculato luoghi ed opportunità e costruiti specifici e puntuali progetti strategici di valorizzazione territoriale, con finanziamenti per obiettivi. Andrebbe inoltre definita una “rete minima di tenuta”, con strategie di lungo periodo e “a lento rilascio”, nelle quali lo shock creativo sia connesso ad un orizzonte di sviluppo durevole e duraturo.
Tutto questo per dire che – contrariamente a quanto ci vorrebbero far credere slogan pseudo-politici fin troppo semplici – le dotazioni culturali, storiche, paesaggistiche ed enogastronomiche sono sì essenziali, ma da sole non sono in grado di attivare alcun percorso di sviluppo. Servono invece altre condizioni strutturali sulle quali basare politiche di attrattivitá e di inclusione. E le condizioni migliori perché ciò avvenga esistono solo laddove la popolazione è più giovane e dove la dipendenza da redditi pensionistici è più bassa, perché l’ambizioso obiettivo di rivitalizzare le aree marginali può essere perseguito solo ricreando condizioni di vita favorevoli per chi decida di investirvi il proprio lavoro e la propria vita, anche aprendosi all’accoglienza.
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